Cortocircuito Calhanoglu

Controverso, discusso, divisivo, deludente a larghi tratti, con brevi momenti di esaltazione.
Potrebbe tranquillamente essere l'incipit per descrivere gli ultimi tre anni abbondanti del Milan, ma calza a pennello per il giocatore che più rappresenta il Milan post Silvio Berlusconi: Hakan Calhanoglu.


Figlio dell'infornata "rivoluzionaria" voluta da Fassone e Mirabelli per rialzare il Milan e regalargli solide basi è, insieme a Kessiè, l'unico che ha passato indenne due passaggi di proprietà e quattro differenti allenatori.
Montella, Gattuso, Giampaolo e Pioli, chi da mezz'ala, chi da esterno d'attacco, chi da play, chi da trequartista, nessuno ha preso e panchinato il turco di Mannheim. Ha unito gli allenatori, ha diviso i tifosi, quasi contrapposti ai due lati della trincea, chi lo reputa un genio incompreso, chi l'ennesimo mezzo giocatore passato per Milano ed esaltato per avere un piede migliore della media dei centrocampisti rossoneri.
Il punto di incontro, probabilmente, sta nel mezzo. Hakan non è un fenomeno e non è nemmeno così vero che al Milan non ha mai giocato nel "suo ruolo naturale" (trequartista, "dietro ad una punta" come da lui stesso detto oltre un anno fa in un intervista in nazionale) come sostengono i più strenui difensori del turco. Questo non perchè abbia giocato tanto da sottopunta, ma perchè un ruolo davvero naturale, Calhanoglu, non lo ha, è un nomade del ruolo. La sua miglior stagione in assoluto, la 2013/2014, la gioca con il 9 sulle spalle facendo l'esterno di sinistra o il finto centravanti all'Amburgo. Ma gioca in un contesto fluido, in un 4-2-3-1 in cui l'alternanza tra gli esterni e il trequartista è pressochè costante. Si salva con i Rothosen ai playout, ma chiude la stagione con 11 gol in Bundesliga e un paio di perle notevoli su punizione, compresa quella famosissima contro il Borussia Dortmund di Klopp, battuta poco oltre la metà campo.

Passa da Amburgo a Leverkusen, ma trova un allenatore, Roger Schmidt, che gli fa fare sostanzialmente, quello che vuole. In tre stagioni gioca praticamente ovunque dalla mediana in su. Inizialmente compone il trio con Son e Bellarabi alle spalle di Kießling, nel 4-2-3-1 di partenza, ma è solo riferimento teorico, spesso il Bayer passa ad un iper offensivo 4-2-4 in cui Calhanoglu fa alternativamente e senza grosse distinzioni sia la seconda punta che l'esterno di sinistra quando è Son ad alzarsi a fianco al primo terminale offensivo. E con Schmidt tira qualsiasi calcio piazzato che le aspirine conquistano oltre la metà campo difensiva, ogni calcio di punizione, ogni calcio d'angolo è roba sua. Gioca, come tutto il Bayer due grandi Bundesliga e una buonissima Champions League, iniziata buttando fuori la Lazio ai preliminari e dando un assaggio delle sue qualità direttamente a Roma. Ha la 10 sulle spalle e le sue prestazioni sono da numero 10, da giocatore di fantasia, sia da ultimo passaggio che da conclusione in porta, il tutto in un contesto dall'estrema dinamicità, da una cura tattica minore e un calcio giocato a viso più aperto. La grande differenza con il calcio italiano.

Acquistato dal Milan gli viene data la stessa maglia che indossava in Germania: la 10. E probabilmente è qui che succede il vero cortocircuito. I tifosi del Milan sono oggettivamente stanchi, si aspettano una grande stagione e hanno ancora negli occhi gli ultimi grandi numeri 10, Rui Costa e Seedorf, senza che l'intermezzo Honda possa aver in qualche modo intaccato quelle che sono le speranze e le aspettative nei confronti di chi ha quel magico numero sulle spalle.

Ma Calhanoglu non è nè Rui Costa, nè Seedorf, nè nessuno dei grandissimi 10 che sono passati in rossonero. Il turco ci mette sempre quello che ha, corsa e qualità di palleggio, ma non è un campione soprattutto nella testa. Ha sempre giocato in contesti e ambienti che non lo hanno mai criticato pesantemente, in cui in qualche modo, anche nelle difficoltà, lui riusciva a risaltare.
A Milano è successo davvero di rado, il Milan di Montella ha faticato e lui non è riuscito ad uscire dal maremoto in cui erano finiti tutti, non è riuscito ad esaltare San Siro. E difficilmente San Siro perdona.

Quasi mai appariscente, sempre utilissimo e presente in tutti quelli che sono i tabellini di advanced stats, è quasi sempre uno di quelli che corre di più, che fa più contrasti, che gioca più palloni e che ne recupera di più. Tutte cose che non scaldano il cuore dei tifosi, ma quello degli allenatori. Che, infatti, con o senza l'approvazione del pubblico, al nativo di Mannheim non rinunciano.

Non so come sarebbe andata, o come potrebbe andare, se invece che il 10 avesse un più anonimo 20 sulle spalle, ma credo che determinate pressioni sarebbero diverse, non ci aspetteremmo la giocata da numero 10, la giocata che spacca una partita chiusa, quella che vede un filtrante dove non c'è spazio.
Ma penso che il più grande cortocircuito sia stato quello di dare una maglia pesantissima ad un giocatore con le spalle non abbastanza larghe per indossarla e per reggere l'enorme pressione che l'ambiente Milan ti scarica addosso quando non tutto gira come dovrebbe.

In un calcio diverso, in un mondo, sportivamente, differente il carico è stato tanto, troppo.
Lo sfacciato giocatore che si divertiva a puntare l'avversario, a mandare in porta il compagno e ad essere l'incubo per i portieri avversari ogni volta che posizionava il pallone per un calcio di punizione, in rossonero si è visto pochissimo.

Controverso, molto, divisivo, moltissimo, deludente ancor di più, ma personalmente non mi arrendo. Mi piacerebbe vederlo in una situazione diversa, in un ruolo, come importanza in rosa, differente. Che non ci si aspetti da lui che sia il leader, ma un ottimo gregario, non il capo coro, ma il primo a portare la croce, perchè ha dimostrato in tre anni di saperlo e poterlo fare. Di poter essere un giocatore importante in questo tipo di contesti.
E perchè no, magari dandogli una maglia diversa dalla 10.

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About Matteo Vismara

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