El Pitu, figlio di un calcio andato

Ci sono tante squadre di relativo successo che ti rubano gli occhi e il cuore, la prima di cui ho memoria è, senza dubbio, il Chievo delle Meraviglie di inizio anni 2000 di Gigi Delneri, antecedente al Chievo di Bepi Pillon che dopo Calciopoli viene catapultato a giocarsi i preliminari di Champions League, salvo poi uscire subito dai preliminari sia di Champions League che di Coppa UEFA e retrocedere a maggio 2007.

Ma c'è una squadra che reputo più vicina a me e della quale mi piace, ogni tanto, andare a rivedermi qualche partita, perchè è una squadra di culto, una squadra di uomini normali, quasi tutti, ma con idee straordinarie: il Catania di Montella, prima, e Maran, poi, costruito dalla mirabile conoscenza argentina di Pietro Lo Monaco.

Montella arriva a Catania nel 2011, dopo l'addio del Cholo Simeone che aveva salvato la squadra rossoblu prendendola in corsa da Marco Giampaolo. E' una scelta coraggiosa, l'Aeroplanino arriva da esperienze nel settore giovanile giallorosso e un breve interregno da traghettatore sulla panchina della Roma. Ha idee interessanti, una proposta di gioco spumeggiante, poco italiana per applicazione offensiva, in relazione alla ballerina fase difensiva, e una coralità che mette come unico fulcro Ciccio Lodi e il resto ruota attorno a lui. Ma c'è un solo posto dove questa proposta, molto sudamericana, può avere successo: sotto l'Etna. Dove ad accogliere Montella e le sue idee c'è una colonia argentina, che si divide lo spogliatoio con gli italiani. Si vive bene a Catania, si va avanti ad asado e calcio. Quella costruita da Lo Monaco e dal presidente Pulvirenti è una squadra di culto totale, oltre al già citato Lodi, uno dei migliori tiratori di punizioni di tutta la Serie A, c'è Almiron a guidare il gruppo albiceleste con Izco, Ledesma, Pablo non Christian, Maxi Lopez, il Papu Gomez, Ricchiuti, Bergessio, Carrizo e Andujar.
Poi c'è lui, numero 28, il giocatore più pagato della storia del Catania (4 milioni), uno che nel 2008 Mario Santana indica come giocatore più interessante tra quelli sconosciuti "gioca nel San Lorenzo. Ventitrè anni, è fortissimo, gioca a centrocampo e può fare anche l'esterno. Non ha testa però, è sempre rimasto alla dimensione del San Lorenzo": El Pitu Pablo Barrientos.

Fallimentare la sua prima esperienza, anche figlia di troppi infortuni, con la bocciatura prima di Mihajlovic poi di Simeone che lo rispedisce in Argentina, all'Estudiantes. E mentre in Sicilia ritrovano la passione guidati dal Cholo, Barrientos a casa ritrova fiducia e rapporto amoroso con il terreno di gioco, visto troppo poco nel suo primo biennio catanese (2 presenze).
Quello che torna con Montella è un giocatore nuovo, cambiato, rigenerato. E sfido chiunque a non ripetere come una filastrocca il tridente catanese: Gomez Bergessio Barrientos.
Per due stagioni sono loro tre a far divertire il Massimino a ritmo di tango, accelerazioni e poesie con il pallone tra i piedi. Incidono il loro nome nel cuore della gente e nella storia catanese, migliorando nell'arco del biennio 2011-2013 il record di punti e di posizionamento in Serie A (undicesimi il primo anno, ottavi il secondo).

Che sia una squadra di culto l'ho già detto e ripetuto, è un'orchestra bellissima, ognuno ha un compito preciso, ognuno segue lo spartito che ha davanti, con qualcuno che ha licenza di accelerare o rallentare a proprio piacimento (il Papu) e di fare variazioni geniali alla musica (Lodi). Tutti tranne uno: El Pitu. A lui è concesso di stare seduto a guardare gli altri suonare e ballare, di tenere il tempo con il piede e di iniziare a suonare o a ballare quando lo reputa opportuno. E' la sua arma in più, la sua capacità di sonnecchiare per diversi momenti della partita e spuntare all'improvviso per fare la giocata migliore. E' un po' quello che fa oggi Gomez a Bergamo, più intenso, veloce ed efficace, ma meno elegante. Non mi stupirebbe scoprire che il vivere la partita in discontinuità del Papu non arrivi anche dall'esperienza a fianco del Pitu. Ma questa, che Montella e Maran riescono a trasformare in punto di forza è il motivo principale per cui Simeone non gli da un'occasione, troppo discontinuo nei 90' per un allenatore che fa della concentrazione e dell'applicazione costante il suo mantra.

Mancino, quasi solo mancino, il destro era un accessorio superfluo o quasi, longilineo, magrissimo, fisicamente non prestante, con il cervello come muscolo più sviluppato, tanto che El Pitu significa "Puffo".
In Argentina, spesso, ti danno un soprannome che ti porti per la vita e rappresenta una caratteristica del tuo essere o del tuo vissuto. E la fantasia argentina nel dare dei soprannomi è almeno pari a quella che mettono in campo e il puffo è sicuramente uno di quei soprannomi che difficilmente troveranno diversa collocazione rispetto alle spalle di Barrientos.
Non ha mai sfondato per davvero, ha fatto bene solo a Catania e al San Lorenzo, la squadra del Papa, casa sua. Ne hanno un discreto ricordo anche a Toluca in Messico dove è andato a svernare prima di chiudere la carriera a Montevideo, al Nacional insieme all'amico Bergessio.

Il suo fisico, il suo andamento caracollante e rallentato, la sensazione costante che perdesse un tempo di gioco ogni volta che prendeva la palla, tutte caratteristiche di un calcio diverso, un calcio che non lo rappresentava. Lui era un 10 atipico, di quelli che vedeva lo spazio e tastava il polso della partita, sentiva il battito del cuore del pallone, rallentava e accelerava a seconda della sua percezione, ma vittima di un calcio che aumentava la sua velocità media.
E devi essere Riquelme, l'ultimo grande numero 10 antimoderno, per vivere, non sopravvivere, in un contesto simile, opponendoti allo sviluppo e sfruttandolo a tuo favore. Barrientos, del Mudo, aveva quella serafica calma, almeno apparente, che non faceva trasparire le emozioni, quello sguardo monoemozionale che non ti permetteva di entrare nei suoi pensieri, quella costante sensazione di essere spento in sè stesso. Riquelme studiava il gioco, vedeva spazio dove non esisteva, trovava corridoi, dove gli altri non trovavano nemmeno una traiettoria, il Pitu, più introverso, accumulava genio e sregolatezza, guardava il gioco e si perdeva ad ammirare tutto il resto. Univa visioni celestiali a scatti di follia incomprensibili, cuore caldissimo e testa matta. Quello che disse Santana nel 2008 "Non ha testa, è sempre rimasto alla dimensione del San Lorenzo", la SUA dimensione, quella che gli permetteva di essere un giocatore anni '80, nel calcio di 30 anni dopo, quella che ha trovato a Catania, dopo che aveva iniziato a credere fosse possibile trovarla solo a Buenos Aires.

Barrientos rientra in quella categoria di giocatori che dividono, quelli che ti fanno dire "Se solo fosse continuo". Fosse continuo non sarebbe lui, sarebbe altro. O li ami o li odi, difficile che ci sia una via di mezzo, difficile rimanere neutrali davanti a giocatori che si accendono e spengono a piacimento con poche, ma fondamentali giocate. Lui era così, prendere o lasciare.
Io prendo sempre, Lo Monaco e i tifosi del Catania anche. E probabilmente tanti altri con noi.
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About Matteo Vismara

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