L'arte di chiamarsi Kakà


L’arte non è ciò che vedi, ma ciò che fai vedere agli altri.

(Edgar Degas)

Ci sono. Ho davanti a me la biglietteria. Non so a cosa andrò incontro, o forse sì. Ma al momento non voglio richiamare i ricordi. Voglio solo che sia come la prima volta, di impatto. Voglio che sia semplicemente un viaggio, di quelli che ti lasciano a bocca aperta. Ma non voglio andare lontano, mi basta percorrere qualche sala, guardare qualche opera e fermarsi a rimirarla. Perchè l'avevo dimenticata o, semplicemente, mai guardata sotto quel punto di vista.
Alla fine, è questo che si fa nei musei. Si entra conoscendo sommariamente ciò che si vedrà, per poi lasciarsi trasportare come in balia della corrente, docile, calma, di un fiume che scorre tranquillo.
Ci lasciamo guidare, ma possiamo sempre decidere dove fermarci per sostare un attimo in più, dove lasciare che i ricordi affiorino maggiormente, che i dettagli ci rapiscano gli occhi la mente e il cuore e dove invece passare rapidamente oltre.
Perchè, alla fine, l'arte non è altro che bellezza ed emozione soggettiva. Non puoi incatenarla o racchiuderla in strutture oggettive o statiche. Devi sentirla e viverla.

Eccoci, già perso troppo tempo. Prendo il biglietto ed entro.
Ovviamente già so dove sto andando, ma la prima immagine me lo ricorda in modo inequivocabile. L'immagine di un putto di raffellesca memoria è lì, davanti a me, che mi guarda. Senza ali, ma con una maglia rossonera addosso. Con quel viso angelico, quegli occhi che raccontano sempre più di quello che ti lasciano al primo impatto, quella sensazione che ci sia altro oltre la cornice e che bisogna andare oltre alla sola rappresentazione fisica. Volare con la fantasia e l'immaginazione.
Inizio quindi a girare per i corridoi, alla ricerca della sala che fa per me e appesi alle pareti trovo delle bozze, come quelle di Leonardo. Vedo i particolari, le piccole parti di un tutto più grande, il sombrero ad Ancona, la ruleta su Riise ad Atene, l'accelerazione contro il Celtic, un tunnel, un tocco di suola, il tracciante per Crespo nella notte di Istanbul, un colpo di tacco a tagliare fuori l'avversario o a togliere un tempo di gioco.
Tante piccole cose, quelle che noti meno nell'insieme, ma tanto fondamentali quanto il risultato finale. Senza lo studio preciso degli uccelli, della loro anatomia e della struttura delle loro ali, Leonardo Da Vinci non avrebbe mai pensato ad una macchina volante. Senza lo studio sulla muscolatura umana, non avremmo oggi l'Uomo Vitruviano. Dettagli che sembrano inutili, solo dei vezzi, ma che si rivelano fondamentali nel complesso. Sono i dettagli, quelli che paiono insignificanti a rendere ancora più grande e meravigliosa l'opera. A colpirti e lasciarti senza fiato. Quelli che individui ad una più attenta analisi, quelli che non ti rubano l'occhio immediatamente.
Percorrere questi corridoi è un tuffo nei ricordi, finchè non si incontra la prima grande sala a tema, quella delle ninfee.

La sala delle ninfee-

"Ho dipinto tante di queste ninfee, cambiando sempre punto d’osservazione, modificandole a seconda delle stagioni dell’anno e adattandole ai diversi effetti di luce che il mutar delle stagioni crea. E, naturalmente, l’effetto cambia costantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un minuto all’altro [...]" (Claude Monet)

La ripetizione, costante, sempre uguale e allo stesso tempo sempre diversa è quella che ha caratterizzato le opere più famose di Monet: le ninfee. Per 250 volte nella sua vita il padre dell'impressionismo ha ripetuto la stessa opera, ha scelto un fiore acquatico come protagonista della sua arte. E quel senso di già visto che può colpire nell'immediato sfuma appena ci si concentra sui dettagli, sui particolari di ogni ninfea, così simile, ma mai uguale all'altra. E' il marchio che Monet dà alle sue opere, quell'immagine che ti fa pensare immediatamente a lui. Come per Van Gogh i tulipani. Come per Kakà il destro a giro partendo da sinistra. Una giocata sempre simile, quella palla che si muove verso il centro e quel piattone che si apre a cercare il secondo palo. Un movimento che è mutato nel tempo, come le ninfee di Monet. Ha mantenuto le caratteristiche principali, ma non c'è mai un gol uguale all'altro, c'è sempre un riflesso, un piccolo dettaglio che lo rende unico.
Eppure lo abbiamo visto tante volte, contro la Lazio a San Siro in diverse occasioni beffando tre portieri diversi (Muslera, Carrizo e Berisha), contro il Cagliari dopo una corsa di 30 metri, contro il Siviglia, il Real Saragozza, il Betis Siviglia quando vestiva la maglia del Real Madrid. E poi in Champions League, contro l'Anderlecht e il Fenerbache in maglia rossonera, contro l'Apoel Nicosia in maglia blanca.
Il primo Kakà è più netto, definito, potente, l'ultimo, quello del ritorno a Milano è più dolce, meno esplosivo, più delicato e alla ricerca della precisione più che della potenza.
Pur mantenendo intatto il gesto la sua esecuzione lo rende sempre unico, ti lascia sempre a bocca aperta. Ma lo rende totalmente riconoscibile, inconfondibile, il piattone a cercare il secondo palo è lui. La sua Z sugli avversari, a lasciargli un segno indelebile.
E' questo l'impatto che si ha entrando nella sala delle ninfee, nella sala della ripetizione e dell'evoluzione costante del gesto, sempre per raggiungere l'obiettivo prefissato, un lontano senso di dejavu che ti fa pensare "io questa roba l'ho già vista, ma è bellissima come la prima volta".


La dolce bellezza di un'amichevole-

Uscendo si può proseguire lungo i corridoi di una carriera meravigliosa, incontrare le opere d'arte considerate minori, ma comunque splendide. L'incontro con Ancelotti, la notte di Empoli, le notti belga di Brugges e del Vanden Stock, il giorno dei 100 gol in rossonero, quello del saluto dalla finestra, della grande presentazione al Bernabeu, delle poche gioie in blancos. Insomma, appeso al muro c'è di tutto.

Ci si potrebbe perdere già solo ammirando quei quadri, leggerne il racconto, la spiegazione e lasciare che la voce dell'audioguida ci faccia sognare, mentre ci muoviamo lungo le grandi sale alla ricerca dell'opera giusta.
Ce n'è una che si trova un po' nascosta, perchè non è tra le più sponsorizzate. Non è tra quelle che ti vengono in mente immediatamente.
Il Bacio di Hayez
E' una di quelle opere che ti colpisce sul momento, ma alla quale per qualche motivo non pensi quando devi parlare di grandissimi quadri. E' Il Bacio della carriera del brasiliano. Un gesto che ruba totalmente l'attenzione, che non ti fa interessare al resto, guardi solo al centro, al fulcro dell'immagine, ai colori caldi che colpiscono la tua attenzione a quei lineamenti dolci e precisi che rendono armonica l'azione. Un bacio dolce e passionale per dirsi addio, una corsa irresistibile per mandare un segnale a tutti e dire ci sono anch'io.
Un bacio che coinvolge e cattura l'occhio in un contesto spoglio, senza alcun tipo di dettaglio che possa distogliere l'attenzione dal momento più importante, dal romanticismo spiccato della scena.
Kakà, nel settembre 2006, non è dissimile. Illumina un'amichevole, per quanto possa considerarsi amichevole un Brasile-Argentina, con la sua corsa, la sua eleganza palla al piede e il suo tocco morbido che si accomoda docilmente in rete a battere el Pato Abbondanzieri.
I suoi ottanta metri di corsa sono così coinvolgenti che ad una prima occhiata nemmeno ti accorgi che il primo ad inseguirlo, senza mai raggiungerlo, è l'attuale migliore al mondo. Non fai caso al fatto che Kakà palla al piede fluttua più veloce di quanto possa correre Lionel Messi senza pallone.
Non è il primo gol che ti viene in mente pensando al ragazzo nato a Gama, un sobborgo di Brasilia, ma ogni volta è una meravigliosa sorpresa, uno stupendo momento di gioia, stupore e ammirazione. Con la promessa di non dimenticartelo più.


Il Capolavoro-

In ogni museo che si rispetti c'è sempre IL Capolavoro, l'opera più importante della mostra, quello che viene messo sulle pubblicità e sui volantini. E spesso è verso la fine del tour, per farti assaporare tutto della mostra, per guidarti in un tour che culmina con un'esplosione di emozioni.
Prima di arrivarci ci si può fermare un attimo a rimirare il gol di Empoli, il primo gol in rossonero, nel derby, con Sheva che gli salta in spalla, piccole o grandi luci che conducono al quella che gli autori della letteratura inglese definirebbero masterpiece, il loro Capolavoro. Talmente bello e meraviglioso da necessitare di uno spazio proprio, libero da altre distrazioni. Solo noi e l'arte. In una vicinanza tale da poter goderne totalmente in modo soggettivo, senza influenze di altre.

Sarebbe troppo facile aspettarsi la Gioconda, ma quella l'ha animata Maradona a Messico '86 e due anni dopo Marco Van Basten ha dipinto la sua personalissima all'Olympiastadion di Monaco.
La Notte Stellata di Van Gogh
Nella sala del capolavoro c'è La Notte Stellata, un'opera espressionista, il contrasto tra luce e buio, l'armonia del rappresentato in contrasto con la forza, quasi violenta, con cui è stata rappresentata, a colpi di colore. Un'opera impetuosa, dinamica, piena di vitalità. Totalmente inaspettata. Attraverso la forza del tratto, i colori bui portano ad una rappresentazione cupa, un contesto difficile e tumultuoso. Poi ci sono loro, le stelle, luci accese a rischiarare la notte a dare un senso di serenità, quella della miglior parte del cielo e del Paradiso. Una sicurezza.

Sono luci diverse quelle che illuminano Kakà, sono quelle dell'Old Trafford, in una situazione complicata, in un momento della partita e della stagione difficile. Lui è la stella a cui aggrapparsi. E dal nulla arriva il Capolavoro. Da un innocuo lancio di Dida. La forza nel reggere lo scontro fisico con Fletcher, la prima dolce ma decisa pennellata su Heinze, il genio dinamico nell'evitare Evra ed arrivare davanti a Van Der Sar. Stupendo, meraviglioso, nella sua complessa semplicità. Una giocata che supera il concetto di normalità, è un qualcosa che va oltre. La rappresentazione e l'espressione della realtà in modo emozionale. Kakà fa quello che sente, non quello che sarebbe usuale fare. Esattamente la base fondante dell'espressionismo. Con una follia sportiva degna del padre dell'espressionismo: Vincent Van Gogh.


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About Matteo Vismara

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