Jackie Robinson, il primo nero del baseball


“… It was a history-making day. It would be the first time that a black man would be allowed to participate ina a world series.”
(Jackie Robinson)


La storia tante volte trova strade alternative per mandare messaggi al mondo. Così è stato anche il 15 aprile 1947 all’Ebbets Field di Brooklyn, stato di New York. Quel giorno i protagonisti sono sostanzialmente un ex sottotenente dell’esercito americano consapevole, e circa ventitré mila altre persone non del tutto coscienti, del fatto che si stesse incidendo il punto di svolta dello sport americano, il tutto in diretta televisiva. E anche in televisione quell’uomo era diverso da tutti gli altri, anche nella televisione in bianco e nero gli spettatori potevano vederne la diversità. Quell’uomo è, o forse è meglio dire era, Jackie Robinson. E' il primo nero a giocare in un campionato professionistico americano, sono i primi passi sul diamante, quelli che apriranno la porta ad una lega considerata elitaria, solo per bianchi e di ceto sociale medio alto.

Più piccolo di cinque fratelli, Jackie Robinson, venne spinto allo sport da Matthew argento olimpico, dietro a Jesse Owens, nei 200 metri alle Olimpiadi di Berlino del 1936.
Quel pomeriggio di aprile però è solo il primo attimo della storia, il primo battito d’ali della farfalla. Anche se, in questo caso, l’uragano è nato non troppo lontano dalla farfalla. E a combattere l’uragano chiamato razzismo e pregiudizio che si abbatte su Robinson, i Brooklyn Dodgers e la MLB tutta, fondamentali sono le figure di Branch Rickey, presidente e GM dei Dodgers dal 1943 al 1950, Leo Durocher, allenatore dei Dodgers dal 1939 al 1948, e Pee Wee Reese, giocatore nella squadra bianco azzurra dal 1940 al 1958. Tre coprotagonisti fondamentali di uno dei momenti più importanti dello sport professionistico americano. Tre personaggi diversi, tre ruoli diversi, nella vita e in quei Dodgers. Saranno le loro scelte a dare forza e valore alla iniziale presenza di Robinson nel mondo del baseball professionistico. Anche se a dire il vero c’era un campionato professionistico alternativo, la Negro League la lega sportiva di baseball per giocatori neri, che chiuderà definitivamente solo nel 1966. Nel 1945 Robinson andò a giocare nella Negro League, ma rinunciò a continuare la sua esperienza nella lega deluso dalla disorganizzazione mostrata, soprattutto rispetto all’organizzazione trovata nei campionati universitari durante gli anni di studio a UCLA. Ed è proprio nel periodo in cui Robinson sta decidendo di tornare a lavorare in università che si apre un’occasione inaspettata e incontra il primo uomo che cambiò la sua vita.

Brooklyn Dodgers-

“I do not care if the guy is yellow or black, or if he has stripes like a fuckin' zebra. I'm the manager of this team, and I say he plays. What's more, I say he can make us all rich. And if any of you cannot use the money, I will see that you are all traded”
(Leo Dorucher)

Contro il parere e il volere di squadra, tifosi e opinione pubblica, Jackie Robinson a inizio 1947 firma con i Brooklyn Dodgers un contratto da 600 dollari al mese. A rendere tutto ciò possibile fu Branch Rickey, uno dei più grandi innovatori della storia del baseball. 
Robinson firma il suo primo contratto professionistico
sotto gli occhi di Rickey
Fu il primo ad utilizzare l’approccio sabermetrico al baseball e fu il primo general manager a comprendere la necessità che la squadra avesse un impianto adibito unicamente alla preparazione prestagionale, facendo riqualificare una ex caserma della marina militare a Vera Beach, Florida. E fu il primo a mettere sotto contratto un giocatore di colore e un latinoamericano, il portoricano Roberto Clemente nel 1955. Un uomo almeno vent’anni avanti rispetto alla sua epoca, secondo le persone che lo hanno conosciuto meglio, Rickey fu il primo a credere nelle potenzialità di Robinson e rispedì al mittente tutti gli attacchi razzisti che arrivarono dalle televisioni e dai giornali. Rikey, supportato dal commissioner della Lega, dovette rispondere anche alle minacce di sciopero dei giocatori avversari nel caso in cui Robinson avesse messo piede in campo. In quel caso, gli scioperanti sarebbero incorsi in una sospensione.
A mettere ordine all’interno dello spogliatoio, dopo un’iniziale diffidenza, ci pensò coach Durocher che, in risposta ad una petizione firmata dai giocatori contro la presenza di Robinson, minacciò la cessione a tutti coloro che non erano intenzionati a giocare. La netta presa di posizione di coach e proprietà diede un chiaro segnale ai giocatori di quali fossero le intenzioni sulla permanenza del giocatore nato in Georgia.

Pee Wee Reese-

Ma la risposta più bella agli attacchi a Robinson arrivò direttamente dal campo, da un suo compagno di squadra. Il 22 aprile 1947, a Philadelphia, Robinson venne chiamato nigger dagli avversari, che gli suggerirono anche di tornare nei campi di cotone. Le polemiche per l’atteggiamento dei giocatori dei Phillies trovarono grande risalto sui giornali neri dell’epoca, mentre sulla maggior parte dei giornali a influenza repubblicana il fatto venne fatto passare quasi sotto traccia. In sostegno del compagno di squadra si schierò un giocatore che, contro il volere della maggior parte della squadra, non aveva nemmeno firmato la petizione contro Robinson: Pee Wee Reese. Arruolatosi nella Marina americana e impiegato in operazioni nel Pacifico tra il 1943 e il 1945, Reese aveva combattuto fianco a fianco con diversi neri e fin da subito fu uno dei sostenitori di Robinson. E in un’intervista, riguardo a quel giorno, disse: “You can hate a man for many reasons. Color is not one of them.” [Puoi odiare un uomo per molti motivi. Il colore della pelle non è tra questi"]

Ma il più grande gesto di sostegno nei confronti del compagno fu un altro. Cincinnati, 17 luglio 1948. Le televisioni americane all’epoca mandavano in onda soltanto due partite, quelle che non si giocavano alle 15. E capitava spesso che le squadre giocassero due partite in una giornata, una alle 15.00 e una tra le 18.00 e le 19.00. E’ esattamente quello che successe nella città dell’Ohio.
Già nelle precedenti trasferte a Cincinnati Robinson era stato preso di mira da pubblico e giocatori avversari. Ma dopo che la prima partita già era stata vinta dai Dodgers (8-4), il pubblico, durante il riscaldamento del secondo incontro, si scagliò contro Robinson in maniera ancora più feroce. E la risposta di Reese, ripresa da fotografi e telecamere, fu quella di avvicinarsi al compagno, mettergli un braccio intorno alle spalle e guardare il pubblico. In silenzio. Un’immagine di solidarietà che fece il giro degli Stati Uniti. Un primo chiaro messaggio alla nazione. Silenzioso, ma diretto come lo furono poi i pugni di Mohammed Alì.
E fu il primo grande passo. E se oggi il numero 42 non può più essere indossato da nessun
giocatore di baseball è in onore di quel ragazzo nero nato a Cairo in Georgia. Se dovesse poi capitarvi di passeggiare a KeySpan Park a Coney Island vi imbatterete

sicuramente in una statua. Un giocatore che appoggia il suo braccio sulla spalla dell’altro. I numeri sono il 42 e l’1. I nomi Robinson e Reese, quelli che hanno scritto un pezzo importante di storia di baseball e di umanità.



Share on Google Plus

About Matteo Vismara

This is a short description in the author block about the author. You edit it by entering text in the "Biographical Info" field in the user admin panel.
    Blogger Comment
    Facebook Comment

0 commenti:

Posta un commento